PETROLIO E TERRORISMO!

Il petrolio tocca minimi sempre più bassi. Siamo ormai a valori che non si vedevano da oltre dieci anni e il mondo occidentale, soprattutto l'Europa, grande utilizzatrice di petrolio ma quasi completamente dipendente dalle importazioni, gioisce per un prezzo alla pompa sempre più ridotto. Anche negli Stati Uniti, l'americano medio, ignaro delle ripercussioni che tra breve ci saranno per questo calo repentino del prezzo del barile, festeggia il prezzo di 2$ a gallone contro gli otre 3$ di un anno e mezzo fa.
Ma cosa è successo nel mondo per far si che il petrolio dopo oltre dieci anni di continui rialzi abbia cambiato trend e sia ora in una fase ribassisita?
prezzi del petrolio sono da 2 anni in diminuzione, diminuzioni pilotate dall’Opec e soprattutto dall’Arabia Saudita per distruggere l’offerta di shale oil e sabbie bituminose che is è affacciata sul mercato, grazie al repentino aumento della produzione americana da fracking, facendo diventare gli US il primo produttore al mondo di greggio,cosa che ha dato molto fastidio a tutti i paesi produttori. 

Ma avendo gli stessi, in loro possesso, un'arma formidabile, ovvero mantenere alta la produzione per far crollare i prezzi, arma che unita all'elevato costo di estrazione da fracking, hanno creato un elemento di elevato disturbo al nascente mercato da shale.

Secondo alcuni i sauditi fanno sul serio e non molleranno la presa anche perché hanno dalla loro una sostanziosa  riserva accumulata negli anni di vacche grasse (i prezzi elevati dell’oro nero), ma solo perché le grandi banche, al solito, non subiranno il colpo: too big to fail, come si dice, ‘troppo grandi per fallire’. A chi verrà presentato il conto con questo buco, che alcuni stimano in circa 1.100 mld di dollari? Quasi certamente i consumatori americani.


In realtà spingere i prezzi verso il basso non è solo un danno elevato per l'economia americana, infatti, in questi anni, grazie ai proventi delle vendita di petrolio, quasi tutti i paesi esportatori hanno la possibilità di fare cassa e utilizzare i guadagni per investire nei loro territori in welfare, infrastrutture e tutto ciò che serve per migliorare le condizioni di vita di popolazioni spesso esasperate, frustrate e sottomesse. Il calo di prezzo  rischia di aggravare i bilanci governativi di molti Paesi esportatori che negli ultimi anni hanno improntato le politiche fiscali (per sostenere deficit e spesa pubblica) in funzione di ricavi dall’export petrolifero ben più consistenti. I limiti sui quali sono stati impostati gli investimenti sono quelli riportati in figura.



Al disotto di questi valori del barile le cose diventano problematiche, se anche per il prossimo anno il petrolio dovesse restare basso e intorno ai 40 dollari, le entrate governative di molti paesi rischiano di collassare a tal punto da rendere insostenibili gli impegni di spesa del governo con pesanti conseguenze sociali. 



Tra i Paesi esportatori di petrolio quello che rischia di più, in tema di sostenibilità delle spese governative e del debito pubblico, è l’Iran. Il punto di pareggio di bilancio è fissato infatti con un petrolio a 140 dollari al barile. Traballa anche il Venezuela. Non sono in pochi a sostenere che sugli attuali livelli del petrolio, l’economia venezuelana rischia il default. Il break even tra spese ed entrate governative in relazione alle esportazioni di petrolio è fissato su un prezzo di 120 dollari al barile, circa il triplo dei valori attuali. Il Paese ha iniziato ad attingere, come contromossa, alle riserve valutarie, anche quando vendeva il petrolio a 100 dollari. Per questo motivo molti ipotizzano che il Paese possa cadere in una pesante crisi fiscale che potrebbe scatenare aumento della povertà e rivolte popolari. Il Venezuela infatti utilizza i proventi del petrolio per pagare le importazioni di beni di prima necessità.


Migliore la situazione per l’Arabia Saudita. Per il Fondo monetario internazionale, invece, con un prezzo sotto i 91 il Paese è costretto ad attingere alle riserve valutarie per mantenere gli obiettivi fiscali. Il vantaggio di Riyadh rispetto agli altri esportatori è che può contare su riserve valutarie molto più consistenti, tali da permettergli di non avere grosse ripercussioni con un prezzo più basso del break-even anche per un periodo prolungato di tempo.
E poi c’è la Russia. Il governo russo fa fatica a mantenere le promesse di spesa pubblica quando il petrolio scivola sotto i 100 dollari. Ma la Russia ha un vantaggio rispetto a Venezuela ed Arabia Saudita che si agganciano all’andamento del dollaro per le esportazioni. Può contare sulla svalutazione del rublo, che in parte controbilancia la caduta del prezzo del petrolio rendendo le esportazioni del Paese più competitive.
L’allarme non è scattato per tutti gli esportatori. C’è anche chi, come il Kuwait, che continua a dormire sonni tranquilli. 
Il punto di bilancio è fissato a 53 dollari al barile (sempre stando alle stime dell’Iea). Pertanto il governo del piccolo Paese del Golfo è ancora in grado di rispettare gli impegni di spesa pubblica, calcolati anche in funzione delle esportazioni del greggio.
In Italia, essendo un importatore netto di petrolio, un calo del prezzo è vantaggioso per l’Italia, due volte.
1) gli economisti di Intesa Sanpaolo calcolano che ogni 10 dollari di ribasso strutturale del prezzo del barile si traduce in un incremento del Pil italiano dello 0,3%;



2) il calo del greggio spinge l’Italia ad “importare deflazione energetica”. E’ diversa da quella “core” (che non tiene conto appunto delle dinamiche dei prezzi energetici ed è quindi ben più grave perché indicativa di un’economia realmente imballata) ma potrebbe comunque spingere la Bce a varare un piano di stimoli indiretto alla domanda (famiglie e imprese) attraverso una politica di quantitative easing (che includa anche l’acquisto di titoli di Stato).
Purtoppo però non si considera il discorso sociale, l'aumento di malcontento nelle popolazioni islamiche, spesso grandi esportatori di greggio e l'incremento di tali condizioni crea terreno fertile per il terrorismo  internazionale. 
Inoltre il petrolio oggi è la più grande fonte di finanziamento per il califfato dell'ISIS. Fino a un anno fa nessuno lo diceva, poi la Russia ha inziato a denunciare la cosa. Ma la realtà è che tredici anni di sforzi per tagliare i finanziamenti al terrorismo islamista non hanno prodotto grandi risultati. Anzi, la rete terroristica fondata da  bin Laden o nata da una sua costola è oggi finanziariamente più ricca che mai.
Le organizzazioni terroristiche islamiste sono oggi più ricche di prima dell’11 settembre 2001. Lo ha dichiarato la persona che in questa materia ne sa più di qualsiasi altra al mondo. Parlo di David Cohen, sottosegretario per il Terrorismo e l’intelligence finanziaria del Tesoro americano. In una seduta tenutasi in un’aula del Congresso il 14 novembre scorso, Cohen non solo ha ammesso che al-Qaeda continua a trovare finanziatori, ma ha fatto due clamorose concessioni sull’erede siriano-iracheno della “rete” di bin Laden, il cosiddetto Stato islamico, o Isis. La prima: «Isis ha accumulato un patrimonio senza precedenti (…) ed è l’organizzazione terroristica meglio finanziata di sempre». La seconda: «Non abbiamo soluzioni miracolose, né armi segrete per svuotare le sue casse. I nostri sforzi per contrastare le sue attività di finanziamento richiederanno tempo. E siamo solo alle fasi iniziali».


Può una nazione come l'Italia, che importa circa il 90 % del proprio fabbisogno fossile continuare una politica energetica basata su questa fonte? 

In  realtà la produzione nazionale è quanto mai insufficiente e le riserve accertate di gas e petrolio sono definibili "ridicole" per i consumi del paese.


L'unica risorsa è cambiare strategia: ridurre il consumo di fossili è una strada, e per ora l'unica, da percorrere, attraverso la maggiore efficienza negli usi finali e una penetrazione sempre più elevata di rinnovabili potremmo tenerci fuori da meccanismi internazionali perversi che ci vedranno sempre e solo soccombere.

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